Architettura delle scelte nelle architetture dello spazio

Qual è la relazione tra Nudging e Architettura?

La tecnica del nudge, cioè della persuasione a prendere determinate scelte piuttosto che altre, è molto spesso applicata in un contesto ambientale, pertanto si interfaccia con le discipline legate alla progettazione degli spazi .

Da non confondere assolutamente con le tecniche di manipolazione del comportamento, il nudging rappresenta un aiuto al processo decisionale dell’utente, il quale è consapevole e concorde sul raggiungimento di un obiettivo prefissato. Il premio nobel Richard Thaler , insieme al suo collega Cass Sustein, attribuiscono a questa tecnica un carattere paternalistico-libertario, una terminologia che, per quanto possa risultare un ossimoro, esprime sinteticamente i valori sottintesi che possono legittimarla.

Immagine da teachable

Quando il nudging si applica al design di ambienti istituzionali esso esprime la sua vera potenzialità e legittimità, perché è qui mirato al fine nobile che riguarda il benessere dell’individuo e della comunità a cui egli appartiene. Il dibattito sulla legittimità si accende quando si applicano le stesse tecniche agli spazi commerciali, come i supermercati, dove l’utente percepisce l’intento manipolatorio, e cioè quando avverte di essere dirottato su determinati acquisti piuttosto che altri. Ma anche in quest’ultimo caso il concetto di liberalità è salvo se si rispettano tre principi base che legittimano “la spinta gentile , e cioè la trasparenza, il carattere facoltativo, ed il valore pubblico. Il valore pubblico sussiste quando gli interventi strategici sono finalizzati all’adozione di stili di vita salubri, e nel caso del supermercato varrebbe la spinta all’acquisto di cibi sani.

E’ piuttosto sorprendente che bisogna ricorrere a espedienti di psicologia comportamentale per condurre l’utente alle scelte più virtuose, ma purtroppo la colpa è del nostro complesso cognitivo, che non è un sistema coerente ed organico. Le nostre scelte non sono sempre razionali perché abbiamo l’istinto a prendere scorciatoie e a subire i condizionamenti che derivano dall’emozione, dall’interazione sociale e dal contesto ambientale. Tali impulsi minano il comportamento più coerente anche quando ci si trova davanti ad una persuasione in linea con gli interessi dell’individuo.

Schema esplicativo delle 4 categorie di nudge. Tipo 1 (Riflessivo) e Tipo 2 (Automatico). Trasparente/ Esplicito e Non Trasparente/Implicito

Quando però l’approccio diventa troppo educativo si corre il rischio di innestare un atteggiamento di ribellione “adolescenziale” che può evolversi in posizione complottista, di sfiducia perfino nei confronti di prove scientifiche.

Lo schema sovrastante esprime le 4 principali classificazioni rispetto ad un intervento di persuasione. Difficile dire a priori quale categoria sia la più giusta ed efficace, perché spesso essere espliciti (trasparenti) non fa raggiungere importanti obiettivi voluti, come nel caso della segnaletica stradale che impone il limite di velocità, lungo il River Shore Drive a Chicago (vedi foto e nota in fondo).

La progettazione delle architettura degli spazi e delle scelte (e qui sono due competenze che devono collaborare) esprime inevitabilmente il punto di vista di chi redige la strategia , e per questo è fondamentale capire quanto l’organo decisore sia stimato e legittimato. Certamente l’intervento è percepito diversamente a seconda che lo stratega sia il Ministero della Salute oppure un privato, quale una organizzazione lavorativa. La seconda deve fare uno sforzo ulteriore per legittimare il suo intervento, la sua sfida è più difficile, ed è fondamentale analizzare le caratteristiche contestuali ed i frame comportamentali che le caratterizzano per stilare una strategia di successo.

In ogni caso, anche in contesti facili, cioè in condizioni di alta eticità e forte motivazione, non si può pretendere che il nudging sia l’unico strumento per la trasformazione, ma piuttosto deve essere inteso come un modo per massimizzare l’impatto di più misure prese, tra cui gli incentivi e i mandati.

Le strategie adottabili , che fanno tesoro delle conoscenze di psicologia e delle scienze cognitive, sono innumerevoli e vanno valutate caso per caso. Si può spingere alla scelta di un percorso perché questo assicura una esperienza più piacevole, perché può facilitare la risoluzione di problemi periferici, perché può garantire un vantaggio o, molto meglio, può garantire il mantenimento del vantaggio già acquisito (l’avversione per le perdite è maggiore rispetto al non raggiungere una vittoria).

Tutto queste strategie, infinite quanto lo sono i processi cognitivi che gli psicologi e gli scienziati cognitivi conoscono bene, si traducono facilmente in scelte progettuali dello spazio, che il designer può mettere in campo a partire dall’impostazione dei percorsi, dalle scelte delle rifiniture, e nelle gerarchie dei sottospazi.

Il successo è garantito se ad un buon design-thinking e ad una consulenza specifica si unisce un’ottima tecnica creativa. E poco importa se non si registra una totale partecipazione degli utenti, perché alla fine è l’impatto sociale, più di quello individuale, che conta maggiormente.

River Shore Road di Chicago (vedi nota*)

NOTA* Il lago Michigan è un esempio di nudging applicato a scale più grandi della progettazione degli spazi, quali la pianificazione del territorio. La strada che lo costeggia è panoramica ma presenta una serie di curve pericolose. Siccome molti autisti all’inizio non prestavano attenzione al limite di velocità segnalato la città ha adottato un nuovo modo per incoraggiare i conducenti a rallentare. Una serie di strisce bianche dipinte sulla strada che non sono dossi di velocità ma semplicemente inviano un segnale visivo ai conducenti. Quando le strisce compaiono per la prima volta, sono distanziate uniformemente, ma quando i conducenti raggiungono la parte più pericolosa della curva, le strisce diventano più ravvicinate, dando la sensazione che la velocità di guida sia in aumento e innescando l'istinto naturale a rallentare.

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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

I luoghi della transizione (collegamenti)

Il trapasso da un ambiente all’altro implica anche il passaggio da una attività ad un’altra, ed inevitabilmente una pausa, nonostante la dinamicità dell’atto.

La nostra quotidianità è fatta di pause più o meno lunghe, ed è impossibile pensare di vivere senza farne alcuna. Sui luoghi di lavoro la più recente legge prevede, oltre alla pausa pranzo non retribuita, la concessione di almeno 10 minuti continuativi, se la giornata eccede le 6 ore, per consentire un recupero delle energie psicofisiche ed anche per attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.

In caso di lavoro da videoterminalisti si suggeriscono fortemente (ma non si impongono) le micro-pause, cioè le interruzioni che durano poco meno dei 2 minuti, necessarie a ridurre soprattutto il disagio visivo. Quando si guarda a lungo il monitor la frequenza dell’ammiccamento ( battito delle ciglia) diminuisce ed espone la superficie dell’occhio all’aria più a lungo. Tali effetti possono essere facilmente mitigati spostando lo sguardo altrove, oltre i 6 metri, per soli 1 o 2 minuti, consentendo il rilassamento del muscolo oculare e riattivare la lacrimazione e la pulizia della cornea.

L’effetto positivo delle micro-pause si avverte anche in altri ambiti diversi dal sistema visivo, quali Il sistema muscolo-scheletrico, quello circolatorio e soprattutto il sistema cognitivo, ed infatti non è da poco tempo che si sono sviluppati e diffusi programmi software che provvedono a ricordare le interruzioni di lavoro e aiutano a gestirle nel migliore dei modi.

Collegamento semi-aperto del Castel Beseno TN.  Foto G. Ascione

Collegamento semi-aperto del Castel Beseno TN. Foto G. Ascione

Alan Hedge, professore alla Cornell University, ha immaginato già nel 2015 un ideale pattern lavorativo che si basa sulla regola delle 3 S (vedi figura sotto), che stanno per Sitting, Standing, Stretching, ad indicare l’importanza di alternare tra loro tre attività fondamentali per il benessere del sistema muscolo-scheletrico, che sono appunto lo stare seduti, lo stare in piedi e gli esercizi di allungamento. Alla luce dei più recenti risultati medico scientifici e delle ultime raccomandazioni dell’OMS, che vede il sistema cardiovascolare malfunzionante la principale causa di morte tra le malattie non trasmissibili, si potrebbe suggerire la revisione di questo protocollo con l’aggiunta di una quarta S (stroll), in riferimento alla raccomandazione dell’OMS di dedicare almeno 30 minuti al giorno alla camminata moderata.

Se la camminata diventasse una occasione ripetuta per una bella e rilassante micro-pausa all’interno di un’attività lavorativa potremmo pensare di caratterizzare gli uffici creando più occasioni di transizione. Le pause pranzo che consentono passeggiate all’aria aperta sono senz’altro la soluzione ideale, ma non sono sempre proponibili, e certamente non più di una volta al giorno.

Pensiamo quindi alle micro-pause che ci assorbono poco più di uno o due minuti, quelle che si impiegano per trasferirsi da una sala all’altra o semplicemente per allontanarsi un attimo per raggiungere l’area più adatta a fare una telefonata. Non sarebbero queste delle ottime occasioni per delle pratiche rigeneranti, che sarebbero efficaci per interrompere i disagi emotivi o semplicemente per creare aspettative su eventi imminenti?

Se si pensasse addirittura ad allungare i collegamenti, con dei detour densi di significato, si potrebbero promuovere occasioni di divagazione utile, come un incontro casuale con un collega, o opportunità per dissipare l’ansia e prepararsi ad affrontare eventi importanti.

In un articolo di questo blog di circa un anno fa si è fatto riferimento al carico di significato che F.L: Wright attribuisce ai corridoi nelle sue residenze, in particolar modo nella Casa Kaufmann (FallingWater). Qui l’eccessivo sottodimensionamento per altezza e larghezza spinge l’utenza ad affrettare il passo ed amplificare il godimento dello spettacolo offerto dall’improvvisa dilatazione e spettacolarità delle camere da letto collegate.

Il concetto di corridoio continua ancora oggi ad essere oggetto di sperimentazione e trasformazione, e anche in ambiti diversi da quello residenziale. L’arch. Hertzberger, in ambito scolastico, ha trasformato il ruolo del corridoio da mero luogo “punitivo“ a nobile spazio per apprendimenti alternativi, efficaci per i diversi profili psicologi.

Villa di Poppea Sabina, Oplonti  NA.  Foto G. Ascione

Villa di Poppea Sabina, Oplonti NA. Foto G. Ascione

Il primato dell’attenzione alle percorrenze, tuttavia, va attribuito all’architettura greco-romana. I romani associavano i camminamenti ai momenti di ozio, attribuendo a tale concetto un’accezione tutt’altro che negativa. Per gli antichi Romani infatti l’otium era la cura di sé e della propria saggezza, che passava per la contemplazione spirituale e lo studio, utile e necessario al cittadino di alto rango. Pertanto le residenze non potevano fare a meno dei colonnati, spesso ripetuti sui quattro lati dei cortili interni, e per i quali la distanza tra una colonna e l’altra segnava il passo e contemporaneamente aiutava a generare una piacevole brezza, stimolando il pensiero positivo.

Dai tempi della repubblica romana il mondo non ha più visto una società dell’otium, e il negotium è diventato padrone del mondo, eppure non mancano pensatori che apprezzano e abbracciano la vecchia visione.

L’ozio è il padre di tutti i vizi ed il coronamento delle virtù
— Franz Kafka

In ogni caso c’è da dire, ad ulteriore punto a favore dei camminamenti soprattutto in ambiti lavorativi, che non tutte le andature implicano ozio, anzi. Le pause di dieci minuti, ma anche le micro-pause di soli uno o due minuti sono utilissime alla buona salute poiché diminuiscono il discomfort muscolare , migliorano la circolazione, aumentano la produttività. Rivalutare gli elementi spaziali di raccordo e transizione e considerarli proattivi ad un benessere mentale oltre che fisico, significa creare un ambiente salubre e, quindi, facilitare una esperienza lavorativa di qualità.

Neuroarchitettura 2.0 Edifici con l'anima

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Al principio si pensava che il connubio tra neuroscienze e architettura avrebbe portato a due percorsi molto distanti e diversi tra loro. Il primo caratterizzato da quello che effettivamente sta accadendo, e cioè l'applicazione delle conoscenze in campo cognitivo, neurofisiologico e psicologico alla progettazione, per creare ambienti (statici) che aiutano a svolgere al meglio le attività a cui lo spazio è destinato. Il secondo percorso, invece,riguarderebbe lo sviluppo di edifici intelligenti, cioè di edifici dotati di sistemi tecnologici avanzati che permettono una continua interazione con gli occupanti e un adeguamento dello spazio alle diverse esigenze rilevate. Trattasi di un’architettura dinamica, che si può definire neuromorfica o responsiva alle esigenze più svariate, che siano esse relative alla sfera emozionale, sociale o prettamente di tipo fisiccorporea. Il neologismo neuromorfico è da attribuire a Michael Arbib, neuroscienziato, ingegnere e psicologo, nonché professore alla USC (California), quando nel 2012 ha presentato un articolo scientifico che descriveva "ADA - lo spazio intelligente", un padiglione visitato da oltre 550.000 ospiti all'Esposizione nazionale svizzera del 2002. Questo edificio presentava un'infrastruttura interattiva basata (in parte) su reti neurali artificiali (ANNs), e aveva la pretesa di “provare emozioni' e di “giocare” con visitatori. Con una banale rispondenza delle luci a pavimento ai passi delle persone danzanti, la pista da ballo restituiva ritmi e frequenze del movimento, in armonia con il comportamento degli occupanti, attraverso una illuminazione psichedelica generata inconsapevolmente dagli stessi utenti. Il termine neuromorfico non si riferisce ad una replica delle azioni umane, quanto piuttosto alla loro interpretazione e reazione alle stesse. Nel suo articolo ormai datato Arbib già prende definitivamente le distanze dal vecchio concept di casa intelligente, abitata e appesantita da robots antropomorfi, che replicano le azioni umane. La nuova protagonista è una tecnologia silenziosa, discreta e leggera, che coincide perfettamente con le caratteristiche dei sensori corporei e ambientali che sono attualmente disponibili sul mercato. Stranamente però questo filone stenta ancora ad affermarsi, nonostante le tecnologie disponibili possano contare sul connubio con discipline neuroscientifiche come scienze cognitive, machine learning e intelligenza artificiale che sono all'altezza delle aspettative.

In realtà timide espressioni di edifici responsivi, cioè animati al punto di modificarsi e adattarsi alle diverse esigenze mutanti degli occupanti in tempo reale, già esistono. Si pensi alla domotica, che è capace di interpretare alcuni segnali ambientali per modificare le aperture delle finestre e dei tendaggi. Si pensi quindi anche ai sistemi di sicurezza, che attraverso database aggiornati a distanza possono riprogrammare il funzionamento dei sistemi di allarme o degli elettrodomestici in assenza degli occupanti. Si tratta di applicazioni che migliorano il comfort dell’ambiente, ne semplificano la gestione, restituendo una qualità di vita migliore dal punto di vista gestionale, ma non necessariamente garantiscono un benessere in senso lato. In poche parole possiamo asserire che gli edifici altamente automatizzati possano dimostrare di avere un cervello, ma non certamente un’ anima.

Ma cosa intendiamo per anima quando si sta parlando di edifici? Si intende forse la loro capacità di interpretare ed interagire con i bisogni non solo materiali delle persone, ma anche cognitivi, sociali e spirituali?

Le neuroscienze ormai permettono di interpretare e tradurre in numeri anche i nostri stati psico-fisici e quindi, perché non pensare di creare dei sistemi spaziali che oltre ad essere a misura d’uomo in termini di affordance e usablità siano garanti di benessere a 365 gradi ?

Lo scoppio della pandemia causata dal covid-19 ha bruscamente interrotto alcune speculazioni sulle possibili applicazioni delle tecnologie e delle neuroscienze all'architettura, e sta definitivamente spostando il focus della ricerca su problematiche legate alla sicurezza sanitaria. Il contenimento del contagio (informazione e controllo sul traffico degli occupanti in tempo reale) e la riduzione della percezione del rischio (garanzia di un diffuso senso di sicurezza), rappresentano le urgenze più immediate. Ma si prevede, che una volta superata la crisi, l'obiettivo principale della politica diventi quello di assicurare uno sviluppo territoriale che garantisca a tutti uno stile di vita sano, capace più di prevenire la cura anziché applicarla.

BIM MAN. alto 170 m, di Ove Arup: Antropomorfismo apparente

BIM MAN. alto 170 m, di Ove Arup: Antropomorfismo apparente

Questa nuova nuova esigenza sembra attivare un processo evolutivo in ambito progettuale che si impone con una forza ben maggiore delle precedenti tendenze di mercato e stilistiche. La coincidenza che questa spinta nasca proprio in concomitanza con l’onda derivante dalla disponibilità di un rinnovato sapere scientifico e tecnologico determina, in modo “endogeno” una rivoluzione progettuale che andrà sempre più nella direzione di un’ architettura “neuro”. Questa si imporrà in modo sempre più naturale, convincente e democratico, in quanto si rende garante di maggiore salubrità.

La complessità del linguaggio, alla fine, è solo apparente.

La disponibilità di nuovi dati da parte delle neuroscienze, capace di trasformare reazioni fisiologiche e anche modelli comportamentali in numeri, consentirebbe la programmazione di intelligenze artificiali che, nell'interpretare gli stessi dati, restituirebbe agli spazi da vivere quel cervello “emotivo” di cui avrebbero bisogno per diventare completamente responsivi.

Codificare e decodificare

Codificare e decodificare

I due percorsi a cui abbiamo fatto riferimento a capo dell’articolo, cioè quello statico, (legato alla biofilia e alla psicologia ambientale, che è già realtà - per quanto ancora di nicchia), e quello dinamico, (dell’architettura neuromorfica, percepito ancora come utopico e avveniristico), potrebbero adesso fondersi per creare un unico approccio, un paradigma progettuale che può risolvere l’antica dicotomia che contrappone l’estetica alla funzionalità degli spazi architettonici. Se la biofilia ci insegna che la bellezza trova la sua ragione nel giusto equilibrio degli stimoli sensoriali, il supporto di una tecnologia discreta consente di rispondere in modo dinamico e adeguato ai diversi stimoli.

Non sappiamo se il progetto ambizioso di realizzare un edifico responsivo nel suo complesso, come quello anticipato da Arbib, possa essere un risultato immediato, ma di sicuro sarà innescato  un processo che, partendo dal basso, e rispondendo a esigenze e a committenze diverse, integrerà sub-sistemi sensibili,  reattivi ma  indipendenti. Chissà se poi il tempo darà il suo contributo per consentire il dialogo tra le distinte competenze e i diversi linguaggi, e restituire all’edificio una intelligenza compassionevole ed empatica  che si prende cura dei suoi residenti.  

 Sarà poi azzardato chiamarla anima?  









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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)

Neuroarchitettura a Scuola : Primi Passi del Protocollo

La Neuro-architettura è una disciplina ancora prevalentemente teorica. Essa si basa su principi di evidenza scientifica per valorizzare le potenzialità osmotiche degli spazi costruiti, cioè per creare ambienti rigeneranti e strumentali per lo svolgimento delle attività ospitate. Purtroppo capita che laddove il confronto interdisciplinare e la ricerca trovano consenso ed entusiasmi, nasce la perplessità su come affrontare la fase successiva, e passare dalle parole ai fatti, per confrontarsi finalmente con un mondo delle costruzioni fatto anche di norme, vincoli e soprattutto pregiudizi.

Il cortile /giardino a sud con la seduta-nastro che collega l’atrio con l’esterno

Il cortile /giardino a sud con la seduta-nastro che collega l’atrio con l’esterno

La progettazione della scuola a Palù (VR) è una occasione ghiotta perché riguarda l’ utenza legata alla fascia dell’età evolutiva,  che è estremamente reattiva agli input dell’ambiente circostante.

Le difficoltà non esitano a presentarsi sin dal primo momento. Le normative nazionali più che le direttive locali dettano vincoli volumetrici, ed il budget si presenta piuttosto contenuto.  L’aspetto positivo? L’entusiasmo e la buona volontà delle architette di Alighieri 50, e di alcuni membri della committenza, che hanno creduto fortemente in una progettazione integrata, mirata ad una qualità esperibile non solo a livello estetico e funzionale, ma in modo più profondo, viscerale e a lungo termine.

Inserimento dell’edificio nel territorio

Inserimento dell’edificio nel territorio

Il contesto territoriale anche rappresenta un punto a favore, poiché assicura una buona qualità dell’aria, una ottima vista del paesaggio e abbondante illuminazione naturale, nel rispetto del ritmo circadiano. Un orto didattico autogestito, il giardino/cortile a sud/ovest e un frutteto privato poco distante sono una ottima fonte di odori e profumi che non solo stimolano l’approccio conoscitivo multisensoriale dei bimbi, ma aiuta nella consapevolezza ambientale.  

Il plesso scolastico, che comprende una sezione elementare ed una materna, rappresenta, a livello territoriale, una grande opportunità anche per arricchire il tessuto sociale, attraverso la politica dell’intersettorialtà e delle sinergie tra le diverse attività comunitarie.

L’approccio progettuale, e quindi la scelta distributiva delle diverse sub-attività, non sono frutto esclusivo di una logica funzionale, ma il risultato di un'analisi approfondita e distinta del comportamento dei bambini, dei docenti e del personale ATA. C’è alla base una volontà di creare aspettative ritmate da sorprese e conferme, e di rispondere all’esigenza di un processo di sviluppo mentale e sensoriale non ancora completo, che per i bimbi più piccoli è solo all’inizio.

L’atrio di ingresso, situato nella sezione elementare ad est, ha richiesto un’attenzione particolare nel dover conciliare il carattere di “spazio rappresentativo polifunzionale” e l’esigenza di ottimizzare l’esperienza per le utenze diverse e nelle diverse occasioni. Esso è preceduto da un ingresso volutamente compresso (l’altezza è ridotta e una luce rossa lo pervade) che aiuta a costruire la giusta aspettativa e quindi l’effetto sorpresa dello stesso.  L’improvvisa dilatazione del volume si armonizza con la luce diffusa proveniente dall’alto, in un gioco di contrasti e di forme più fluide dell’elemento vasca, che lo distingue fortemente dal resto del connettivo. Lo specchio d’acqua, in asse con il cono di luce del lucernario, enfatizza la presenza della natura all’interno, oltre che creare un dialogo diretto con l’esterno grazie alla seduta a nastro che, replicando la stessa curva, guida lo sguardo fuori, fino al giardino a sud.

Scorcio dell'atrio e -da sx - l’accesso alla mensa, l'ingresso, l’area polifunzionale e la reception desk .

Scorcio dell'atrio e -da sx - l’accesso alla mensa, l'ingresso, l’area polifunzionale e la reception desk .

Un’aura di pacata autorevolezza, assolutamente non di autorità, investe quindi lo spazio di accoglienza, come una sorta di manifesto che induce i bimbi più grandi alla consapevolezza del percorso di crescita e di maturità rispetto ai primi anni della scuola materna.

Il senso dell’orientamento, importante quanto l’educazione alle forme, ai colori e alle profondità spaziali, richiede una intelligibilità dell’intero spazio che ne faciliti lo sviluppo. Per questo motivo è stata adottata una geometria di base regolare e semplice, con una percorrenza principale altamente intellegibile anche se mai scontata.  I corridoi, dai colori neutri dall’effetto calmante, vengono in più punti interrotti e dilatati, trasformandosi da luoghi di mero passaggio in opportunità di riflessione autonoma e/ confronto a due, utili per il superamento di quegli occasionali momenti di disagio emotivo. Grazie alla cura del dettaglio offerto da un arredo dedicato e da una illuminazione fatta di fasci luminosi diversamente direzionati (siano essi naturali o non), questi sottospazi riescono a offrire il giusto livello di privacy ed intimità, appartando ma non isolando dal contesto.

Le forme libere dei soffitti e dei pannelli fonoassorbenti offrono indizi di profondità

Le forme libere dei soffitti e dei pannelli fonoassorbenti offrono indizi di profondità

Le aule didattiche sono differenziate tra loro per creare esperienze uniche che, adeguate alla fase di crescita, possano cadenzare il passare del tempo e sedimentare una ricca memoria storica.

Nella sezione materna si ricorre a stimolazioni più forti, grazie all’uso di colori più vivaci e saturi e all’adozione di un impianto planimetrico che rompe gli schemi tradizionali. Cinque lati, e non quattro, aiutano quindi a creare un’esperienza spaziale più articolata.In questa ottica di geometrie libere le altezze dei soffitti sono variabili, e accade che a volte questi ultimi si inclinino in prossimità della finestra, per creare giochi di riflessi inusuali e per stimolare la curiosità. Un gioco di nicchie lungo le pareti, particolarmente ricco nella sala dedicata alle pratiche meditative e al riposo, offre un’esperienza insolita di rifugio che, secondo i principi dei design biofilico, aiuta nella costruzione della fiducia in se stessi esd è risolutiva nei momenti di iperattività.

"Affordance" in architettura

Affordance significa invito

Esiste una forte analogia tra il design degli oggetti ed il design degli spazi, nonostante spesso i due campi di applicazione sembrano appartenere a due modi molto distanti tra loro, a causa di dinamiche economiche e di mercato molto diversi.

Affaccio sul golfo, Certosa San MArtino- NApoli . foto n. de pisapia

Affaccio sul golfo, Certosa San MArtino- NApoli . foto n. de pisapia

 Tale analogia si evidenzia attraverso il concetto di affordance..

Affordance significa invito, cioè  la capacità di capire la relazione che c'è tra l'utente e l'oggetto, nel caso del design del prodotto, oppure tra l'utente e lo spazio, nel caso del design dello spazio.

Nonostante il termine sia diffuso soprattutto nell’ambito del design industriale, il concetto si forma e si sviluppa in considerazione del rapporto tra gli esseri viventi e la natura. Un ciglio di una roccia che si sporge su uno strapiombo ha una sua specifica affordance per noi esseri umani: essa ci comunica di stare attenti e di fermarci, e di assumere determinante posture che non ci mettano a rischio di vita. Per un uccello lo stesso luogo può essere un invito a spiccare il volo per perlustrare la vallata che è oltre.

Il concetto di affordance è costantemente applicato allo spazio costruito in scala architettonica, ma non in modo pienamente consapevole. Esso si applica in modo automatico, attraverso il  perpetrarsi di tipologie validate e confermate nel tempo, a volte con profonda cognizione dei significati insiti,  altre volte (e questo è più il caso degli ultimi decenni) imposte dalle regole di mercato e di tendenze che poco hanno a che fare con le considerazioni sull’effettiva efficacia che i vari fattori spaziali possano avere per la nostra esperienza legata al luogo.  Spesso viene a mancare la consapevolezza del profondo legame che unisce lo spazio alla sua destinazione di uso, la metodologia progettuale rivela tale importante omissione con lo scarso successo dello spazio stesso, in termini di qualità di esperienza di vita e quindi anche di qualità estetica.

Eppure prima che i recenti sistemi di indagine e monitoraggio delle nostre reazioni cerebrali fossero disponibili,  grandi architetti del movimento moderno hanno approfondito queste tematiche e hanno avuto geniali intuizioni. Un esempio sono gli interni di Fallingwater, con i corridoi molto stretti e bassi che collegano le camere della zona notte, le cui dimensioni ridotte rispetto al resto della casa non possono lasciare indifferenti. Tale scelta è il  risultato di un profonda riflessione sulle sensazioni effimere ma profonde che caratterizzano il movimento nel luogo domestico e quindi il modo di percepire e vivere lo stesso, al di là delle considerazioni strettamente fisiche legate all’accessibilità (importantissime ma non le uniche a decretare la buona funzionalità).

ingresso LAtrina a 45 gradi in villa San MArco di Stabia .NA. foto G. Ascione

ingresso LAtrina a 45 gradi in villa San MArco di Stabia .NA. foto G. Ascione

E’ probabile che tale approccio abbia avuto a sua volta influenze dall’architettura greco-romana, nelle scelte progettuali adottate nelle ville fuori città (Villa San Marco di Castellammare di Stabia –nella foto), le quali adottano schemi più liberi, planimetrie e volumetrie fluide a risolvere e rispondere a esigenze molto particolari e più sofisticate. Anche qui infatti si ricorre a dilatazioni e restringimenti dei volumi, geometrie innovative, che rompono con le tendenze e le regole dell’epoca, e sembrano soddisfare egregiamente le aspettative di chi le vive, inviando messaggi sulle azioni da svolgere e sugli stati mentali propedeutici a tali azioni.

Quali indagini affronterebbero gli architetti del passato recente e trapassato se fossero attivi oggi ? Come accoglierebbero la disponibilità di strumenti scientifici capaci di misurare le reazioni psicologiche ed emozionali degli utenti di uno spazio progettato?  Quanti nuovi significati avrebbero creato e validato?

Il concetto di affordance rappresenta un valido strumento per giocare con gli spazi e creare esperienze del luogo molto ricche, perché i suggerimenti e gli inviti a compiere determinati gesti e azioni possono essere reali, ingannevoli, ambigui. L’importante è sapere usare bene il linguaggio spaziale per riuscire in ogni singolo scopo, premesso che la scelta degli scopi sia opportuna, rispettosa del benessere di chi dovrà occupare lo spazio e fatta  in piena libertà rispetto alle tendenze stilistiche e tecnologiche.

La distinzione tra spazio pubblico e privato è fondamentale per la buona riuscita del progetto  e nell’applicazione di questo approccio alternativo. Basti pensare al fattore “navigazione” che, se nel privato induce ad una familiarità del luogo raggiungibile dopo un minimo sforzo mnemonico iniziale, nell’ambito pubblico è causa di stress poiché il rapporto non continuativo con lo spazio non dà tempo alla memorizzazione. In tal caso l’uso e il dosaggio dei segni e significati del progetto sono altri elementi necessari, perché sono un indizio ulteriore al nostro processo cognitivo di interiorizzazione dello spazio. Una maggiore conoscenza e padronanza nell’orientamento si traduce in una maggiore rilassatezza nell’approccio al luogo e di conseguenza un maggiore apprezzamento dello stesso.

foto n. de pisapia

foto n. de pisapia

Non è forse questo che si chiede ai nuovi spazi urbani ?

E non sono anche tutti i fattori sopra considerati elementi necessari a dare credibilità e attrattiva ad un luogo nel lungo termine, dopo che gi effetti di meraviglia e di stupore  - anch’essi importanti e tipici del primo impatto -  si estinguono ?