Il Destino (di)segnato

Chi non si è mai trovato ad osservare un rendering di ambienti architettonici? Che siano schizzi a mano libera o modelli CAD in 3d essi risultano molto suggestivi e realistici, una restituzione artistica nel primo caso, quasi una fotografia nel secondo. Essi aiutano il progettista a esprimere aspetti che un disegno tecnico non può cogliere.

Faro Santander, progetto di Chipperfield

Luci rifesse che restituiscono colori, ma soprattutto superfici quasi tangibili, al punto da immaginarsi odori e suoni. Nonostante questa fedele restituzione della scena architettonica lo strumento progettuale nasconde il limite della sua funzione di controllo sulla riuscita effettiva dell’ambiente progettato, pur convincendo l’occhio del cliente inesperto.

Basta soffermarsi su quelle sagome di persone inserite e sovrapposte al disegno, osservare il loro linguaggio corporeo standardizzato e limitato in un numero finito di pose, espressione a loro volta di un momento sospeso, per capire che si sta descrivendo una bolla temporale che non appartiene al flusso delle contingenze. Se riflettiamo sul potenziale movimento biologico suggerito dalla postura, rileviamo un’assenza di reazione cognitiva ed emotiva, una esperienza messa in standby per dare risalto solamente (e naturalmente) alle funzioni spaziali degli elementi di arredo.

Ma quale sarà il destino delle persone vere che andranno ad occupare quegli spazi? Si potrebbe garantire un maggiore controllo sulla riuscita del progetto se si considerasse l’interazione degli utenti dal punto di vista psicofisiologico e non esclusivamente ergonomico?

Noi essere umani, quando siamo calati realmente in una situazione, siamo sottoposti a migliaia e migliaia di stimoli. Se vogliamo considerare solo la visione sappiamo che ogni piccolo dettaglio colpisce la nostra retina, ma non siamo capaci di ritenere tutto perché il nostro cervello è troppo piccolo. E allora il nostro cervello fa una selezione facendo entrare in gioco l’attenzione, che sceglie quello che deve essere elaborato.

Ma quale attenzione? A tirarla in ballo in questo modo sembra che dobbiamo fare uno sforzo mentale in ogni istante della nostra vita. In realtà “attenzione” è un nome collettivo con cui indichiamo una famiglia di meccanismi che restringono o indirizzano l’elaborazione in vari modi, e in diverse parti del sistema nervoso. Essa può essere esterna, rivolta verso l’ambiente intorno a noi, e può essere interna, quando segue la nostra linea di pensiero. Inoltre può essere esplicita, implicita, sostenuta, cioè di vigilanza su un fenomeno o oggetto. Soprattutto può essere una combinazione di alcune di queste appena citate. Ovviamente più sono gli stimoli più ci sforziamo nella selezione dell’attenzione, e più paghiamo il prezzo legato all’energia mentale coinvolta.

Prendiamo per esempio la progettazione di un’area di lavoro collettiva, che accolga più gruppi aggregati, e immaginiamo di dover decidere il layout interno rispetto a condizioni architettoniche già fissate nell’edificio. I progettisti dedicano molto tempo alla scelta del materiale del colore delle pareti, alla rifinitura del pavimento, e dispongono le scrivanie immaginando e giudicando il risultato valutando il rispetto delle norme, del buon senso, e soprattutto l’armonia deli elementi di arredo, ma pensano poco a quello che realmente potrebbe accadere ai comportamenti ed ai pensieri delle persone.

immagine di G. AsCIONE

Una persona seduta alla scrivania può apprezzare - a livello tattile e propriocettivo - la comodità di una sedia, oppure giudicare l’altezza del piano di lavoro e la sua adeguatezza all’uso della tastiera. Il giudizio estetico sicuramente caratterizza il primo impatto, ma poi diventano altri i fattori coinvolti che definiscono interamente l’esperienza della giornata lavorativa. Si dà peso alla qualità di un paesaggio esterno e al modo in cui una finestra concede questa scena, ma soprattutto pesa il modo in cui la postazione si relaziona con le altre e come vengono controllati i coni visivi dei colleghi, il grado di discrezione del proprio schermo. La possibilità di spostarsi da un ambiente all’altro, di assumere diverse posture, diventa indice del proprio grado di libertà e della possibilità di perdersi in momenti di divagazione senza avere la sensazione di essere giudicati. Ma si cerca anche l’opportunità di incontri casuali e non, grazie ai quali un breve confronto di idee sul progetto può aiutare a risolvere problematiche, a coordinare soluzioni individuali.

Lo spazio ci educa e decide il nostro destino, ma spesso non ci rendiamo conto del peso che piccole variazioni del layout possano avere. Basta veramente poco per innescare un effetto domino che si ripercuote al livello personale ed interpersonale, e determina una situazione complessa.

Ricordiamoci quindi che le sagome sovrapposte ai render architettonici a conclusone di un progetto fanno riferimento a persone vere, diamo loro un’anima e valutiamo tutti le possibili reazioni ai fenomeni che possono scaturire dalla storia che si sta raccontando. Gli strumenti per fare questo, ormai, ci sono tutti.

 
























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Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)