Tutta la cura possibile: Immedesimarsi negli “over”

Questo articolo non vuole dissertare sulle profilassi mediche o le disponibilità sul mercato degli ausili a supporto nella quotidianità degli anziani, anche se questo tipo di soluzioni sono fondamentali per migliorare la qualità di vita per chi non è totalmente autosufficiente nei movimenti.

immagini opensource di squarespace

Salutogenesi, cioè lo studio di come impostare uno stile di vita che allontani la malattia e coltivi e conservi più a lungo possibile l’efficienza psicofisica, piuttosto che patogenesi, la quale studia le cause e la cura della malattia, rimane, anche in questo ambito più critico, un riferimento costante della cura, e della neuroarchitettura.

Può sembrare strano ma questo approccio  vale anche per coloro che convivono con le patologie che inesorabilmente si presentano ad un certo punto della vita. Sarebbe opportuno parlare di manifestazioni di degenerazione dei sistemi vitali, piuttosto che di patologie. Di queste si conoscono le cause, se ne ha anche una certa rassegnata aspettativa, ma spesso si lascia alle persone affette la sola possibilità di convivere con il disagio, in uno spazio non più adeguato, spesso palesemente deformato al punto da amplificare e sottolineare le problematiche legate all’interazione con esso, e lasciare che i disagi fisici degenerino in quelli di tipo psicologico.

 In realtà la scienza ci dice, man mano che si avanza egli anni, cosa accade al nostro fisico, alla vista, al tatto, alla propriocezione, e spiega come si innescano i cambiamenti dei meccanismi percettivi, ma non si dedica a cercare soluzioni che aiutino le persone a superare le problematiche oltre che accettarle. Non poter distinguere i colori e le forme, oppure confondere i giochi d’ombra con dei rilievi, rappresentano un errore di interpretazione dell’input che spesso lascia il messaggio fuorviante di essere vittime di brutti scherzi. La scarsa consapevolezza di quello che realmente sta accadendo intorno rende l’anziano insicuro, ingannato, perfino paranoico, e quindi inevitabilmente depresso. E’ necessario prendere in considerazione i fenomeni legati a queste alterazioni prima ancora di ricorrere alle soluzioni architettoniche più funzionali ed accessibili. 

L’uso di colori vivaci , di superfici tattili morbide  e rassicuranti, una chiara distribuzione degli spazi per una facilitata navigazione, oppure l’attenuazione dei forti contrasti di luce per evitare fenomeni  di abbagliamento, sono sicuramente un ottimo punto da cui partire, ma non basta.

Il fattore umano  è il  grande protagonista dell’esperienza in genere, e che diventa in questo ambito fondamentale per il benessere emotivo dell’adulto ‘over. Prendiamo per esempio l’approccio con le persone intorno, e quindi l’importanza di codificare in tempo il loro grado di familiarità. La modalità con cui riconosciamo un volto oppure decodifichiamo il linguaggio corporeo spiega le basi della comunicazione nell’essere umano, quella che entra in gioco in modo immediato, istintivo, e qualche milliseocndo prima che la capacità di discernere il parlato fornisca altri elementi di comprensione. 

SOcial filed of vision. Tratto da . “Cities for people” di Jan Gehl

Jan Gehl, architetto e urbanista danese, ha analizzato bene il processo di riconoscimento dei volti in quanto ha legato tale modalità al fenomeno della percezione del rischio e di minaccia negli ambiti urbani. I suoi studi si sono basati sull’osservazione dell’adulto medio, essendo la  percezione del pericolo un problema che riguarda  tutte le categorie di persone, specialmente quando ci si trova in situazioni poco familiari e allertanti.  Gehl ha classificato i limiti di distanza entro o oltre i quali si incomincia a includere (o escludere) elementi di riconoscimento dell’individuo che ci troviamo davanti. Oltre i 25 metri potrebbe essere difficile distinguere un uomo da una donna, ma bastano alcuni passi per incominciare a decodificare le espressioni del viso e le emozioni. Una genuina conversazione è possibile ad una distanza di 7 metri, e man mano che ci si avvicina lo scambio diventa sempre più dettagliato e ed articolato, fino ad una distanza limite di un metro oltre la quale si entra nella sfera intima. Qui il tocco e la percezione degli odori sono permessi, e anche molto graditi per una cerchia ristretta di persone.

Conoscere questi limiti è importante per stabilire i riferimenti spaziali per un facile controllo della situazione nei diversi contesti pubblici, sia di tipo ambientale che demografico. Bisogna però evitare di sopperire ad una diminuita riconoscibilità del contesto con l’aumento di luce artificiale nelle ore notturne, perché questo espediente ci fa entrare in un loop di errori che ci mette con le spalle al muro. L’aumento di intensità luminosa, specialmente la luce artificiale notturna (ALAN) a cui siamo sottoposti quasi sempre, in casa, nei negozi, nelle strade urbane, oltre ad essere espressione di una conquista tecnologica, perché associato ad una migliorata sensazione di sicurezza e apparente benessere, ha anche un altro effetto negativo che incide in modo subdolo sull’umore delle persone adulte, e non solo quelle di una certa età.

Un recentissimo articolo pubblicato su Environment International ci conferma con dati numerici un fenomeno già noto, sul legame tra la quantità di ALAN (artificial light at night) e l’incidenza di depressione nella popolazione di età matura. Si tratta solo di una grande conferma dal momento che è già ben noto quanto la sovastimolazione luminosa notturna possa sfasare il ritmo circadiano, alterare il ciclo sonno-veglia e causare problemi cardiovascolari oltre che metabolici.  Prevedere che la depressione sia un effetto principale per i più maturi è abbastanza plausibile dal momento che questa categoria è già afflitta da disturbi del sonno e circolatori.

La modulazione della luce, nonché delle relazioni sociali diventa un fattore cruciale negli luoghi dedicati ai malati di demenza e di Alzheimer. I questi casi estremi i fattori diventano scatenanti piuttosto che disturbanti e la cura del dettaglio ambientale diventa essenziale se non vitale.

Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)