Empatie e antipatie: origini e sviluppi dell’architettura esperienziale.

La neuro-architettura negli ultimi anni sta definendo in modo sempre più chiaro i suoi campi di indagine, risultando un riferimento sempre più importante nella evoluzione della pratica progettuale. Il paradigma del progetto si arricchisce e assume nuove declinazioni grazie ai contributi scientifici che forniscono evidenze di processi omeostatici (processi di autoregolazione per l’adattamento ai cambiamenti delle condizioni ambientali) che vanno oltre gli aspetti puramente biologici (cellulare, molecolare e organismico) generalmente considerati. Alcuni spazi soddisfano gli occupanti più di altri, e spesso non si capisce quale sia il fattore che determina questo plus valore di tipo qualitativo: esso va oltre l’apprezzamento estetico/visivo o funzionale, mentre si avvicina ad una rigenerante esperienza multisensoriale, la quale rende questi spazi più rispondenti alle nostre aspettative e quindi empatici.

Bruder Klaus Field Chapel di Peter Zumthor .                 Fonte: www.arpadphotography.com

Bruder Klaus Field Chapel di Peter Zumthor .                 Fonte: www.arpadphotography.com

L’architettura esperienziale, o anche architettura aptica così come è definita da Pallasmaa, si insinua in un particolare ambito della neuro-architettura che però soffre molto le controversie che caratterizzano il dibattito scientifico di riferimento. Nel caso specifico ci riferiamo ai neuroni specchio nell’essere umana e alla diatriba sulla effettiva funzione che questi abbaino all’interno del nostro sistema nervoso. Non entreremo adesso nel merito delle diverse interpretazioni che sono state attribuite a queste piccole unità cellulari (rimandiamo la trattazione di tale argomento ad un futuro articolo), ma andiamo invece a considerare correnti di pensiero molto pertinenti al tema in questione, ma che risalgono a tempi remoti. Parliamo di oltre due secoli fa, quando le tecniche neurofisiologiche e di neuroimmagine non esistevano ancora. Nel diciannovesimo secolo filosofi e psicologi affrontavano con profondità i temi dell’empatia dello spazio, e lo facevano relativamente all’estetica, dal momento che la percezione visiva costituiva il tema centrale nel dibattito culturale psicologico dell’epoca.

Ritratto Vernon Lee di J.S.Sargent 

Ritratto Vernon Lee di J.S.Sargent 

Se infatti il termine empatia era originariamente riferito alla capacità di comprendere a pieno lo stato d'animo altrui, a partire dalla metà del 1700 ha assunto la sua accezione riferita alla dimensione spaziale. E’ l’epoca in cui i filosofi tedeschi facevano riferimento al termine einfuhling, o meglio, al verbo eimfuhlen, che significa letteralmente "sentire in”, per indicare il significato di appartenere a , essere associato con. Si incominciò poi a parlare di empatia relativamente agli oggetti inanimati grazie a Vernon Lee, donna intellettuale inglese nata in Francia nel 1848, che trascorse la maggior parte del la sua vita in Italia e che subì l’influenza di filosofi e psicologi tedeschi come Lipps e Groos. Il vero nome di Vernon Lee era Violet Paget ed era conosciuta principalmente come scrittrice piuttosto che per le sue ricerche (destino comune per tutte le donne di quel periodo), ma può ora essere considerata una delle fondatrici della psicologia estetica. E’ stata lei la prima ad asserire che la percezione di un oggetto è caratterizzata da episodi di risonanza simpatetica all'interno del nostro corpi, e che possiamo usare questa esperienza corporea come strumento di indagine. Tale sua interpretazione meccanica e callistenica della percezione degli oggetti inanimati risulta abbastanza spinta anche per i tempi in cui viveva. Riportiamo di seguito un passo in cui lei stessa descrive la sensazione corporea che si innesca alla visualizzazione di una semplice brocca di vetro: 

… sento la pressione sui miei piedi sul pavimento quando guardo la base, ed una sensazione di ascesa quando guardo la sua forma per intero, ed una pressione sul mio capo quando visualizzo le sporgenze del bordo superiore …

Nel corso del tempo è accaduto che la scienza sia diventata sempre più empirica e basata su accertamenti di dati comportamentali misurabili e confrontabili, sminuendo la dimensione introspettiva. Molti campi di indagine in cui contava la dimensione soggettiva sono stati privati di validazione scientifica, lasciando molte questioni insolute e diventando sterili. Eppure ancora adesso, se cerchiamo il termine empatia in dizionari di filosofia e psicologia di non molti anni fa (1) troviamo che la definizione riprende i concetti esperienziale dei secoli scorsi, riferendosi quindi prevalentemente all’esperienza corporea nella percezione degli oggetti spaziali inanimati. Un esempio esplicativo tipico è quello della colonna e della tendenza di noi umani ad identificarci con essa, in modo tale da sentirci scomodi e inadeguati a sostenere il peso sorretto quando vediamo la stessa essere molto sottile, oppure, se la colonna è tozza, di percepirci come grossi e goffi. Questa interpretazione dell’esperienza percettiva, spogliata dagli eccessi formali della Lee, si avvicina molto anche alle teorie contemporanee dell’ embodied cognition e della situatedness, le quali affermano che l’esperienza del mondo che ci circonda avviene nella stessa misura sia attraverso il corpo che attraverso la mente. Si tratta di correnti di pensiero che creano spaccature all’interno della categoria di neuro-scienziati e che lasciano perplessi anche gli architetti, dal momento che fa riferimento a livelli di sensibilità, o meglio di sensorialità, che non è tipica degli umani tutti ed è ancora troppo legato all’arbitrarietà del pensiero soggettivo.

Immagine di Giuseppina Ascione

Immagine di Giuseppina Ascione

Al momento, però, ci sono altri campi di indagine neuroscientifica che hanno finalità pratiche nella disciplina architettonica, e sono tutti argomenti che - pur sottintendendo la connessione mente/corpo - riportano risultati scientifici oggettivi, di immediata applicazione in campo progettuale, e gettano le basi per ulteriori campi di indagine. Lo spazio costruito ha un forte potenziale come strumento di benessere dal momento che può interferire nel dialogo continuo tra il nostro sistema nervoso e il resto del nostro organismo: se il dialogo è costruttivo, questo andrà beneficio del nostro sistema neurofisiologico e del nostro stato di benessere. Pertanto gli architetti sono invitati a non coltivare alcun scetticismo sul rapporto interdisciplinare: il lavoro sperimentale condiviso dalle neuroscienze e della architettura è solo all’inizio del suo percorso, e non è escluso che in questo processo si possano trovare i punti di connessione tra campi di indagine attraverso il superamento delle apparenti dicotomie.

  1. The Oxford Companion to the Mind R.L.Gregory, Oxford U.Press, 1987
Comment

Giusi Ascione

Architetto abilitato dal 1992, LEED Green Associate, con un’esperienza decennale all’estero presso studi di progettazione internazionali (Burt Hill, EMBT/ RMJM, Forum Studio/Clayco). Rientra in Italia nel 2008 per avviare ABidea, dedicato alla progettazione e al retrofit. Nel frattempo presta consulenza presso Proger Spa, NeocogitaSrl, collabora con il GBCItalia. Consulente architetto per spazi rigeneranti e formatore di CFP per architetti, è coinvolta anche in attività di ricerca interdisciplinare centrata sulle relazioni tra il comportamento umano e lo spazio costruito. (EBD - Environmental Psychology)